Riccardo Affinito da vivitelese.it
Quando la sveglia
suonò puntualmente alle 5,30, come al solito, mi girai dall’altra parte facendo
finta di non sentirla. Poco dopo arrivò la voce perentoria di mio padre:
Guaglió, ‘a sveglia ha sunato! Il treno arrivava alle 6,10 e quindi avevo poco
più di una mezz’oretta per svolgere tutti i preliminari, naturalmente “sempe
durmenno all’érta-all’érta”. Era una fredda e umida mattina d’inverno. Dopo aver bevuto il
caffè corretto all’anice che il buon don Clemente mi aveva preparato, mi
caricai “’a catastella ‘e libbre” e m’incamminai verso la stazione. Fuori
c’era la nebbia, la fedele compagna della mattinate telesine, che con le sue
spire avvolgeva tutto il paese. In essa vedevo aggirarsi le solite ombre amiche.La nebbia telesina,
contrariamente alla più nota nebbia del Carducci, appariva pesante, anziché
salire verso gli irti colli ti teneva schiacciato per terra e ti entrava
dappertutto.
A cinquant’anni di distanza, ancora ho il ricordo del suo odore
nelle narici. Alzarsi la mattina così presto era già di per se stesso uno stress che ti
accompagnava per tutta la giornata; se poi a questo ci aggiungi che i treni
pendolari della tratta ferroviaria Napoli – Benevento erano composti dai
cosiddetti “carri bestiame” e che oltretutto arrivavano in misura insufficiente,
si può avere l’idea “ ‘e comme stévemo c’’a capa”. A Telese già avevamo
difficoltà a trovare posti a sedere, poi c’erano le fermate di Solopaca, S.Lorenzo Maggiore, Ponte e
Vitulano. In pratica quando arrivavamo a Vitulano stavamo così stretti che
sembravamo delle sardine in scatola. Per la verità avevamo fatto presente
diverse volte ai capotreni di turno queste deficienze tramite il nostro portavoce
ufficiale, Nicola Sparano “ ‘o pistolero”; ma a loro, secondo il costume di
quei tempi, “ ‘a na’ recchia lle traseva e ‘a chell’ata ll’asceva”. Quella mattina l’atmosfera,
oltre ad essere umida, era anche elettrica poiché il giorno prima avevamo concordato
di organizzare una protesta per ottenere più carrozze : avevamo deciso di
fermare il treno per mezz’ora mettendoci tutti davanti al locomotore. Quando
arrivò il treno ci accorgemmo, purtroppo, che uno dei principali organizzatori,
Aldo Cucciniello, non era arrivato; salimmo in treno con l’idea di rimandare la
protesta al giorno dopo. Ma mentre si stava per chiudere l’ultima porta vedemmo
arrivare Aldo che, secondo il suo costume, “era ll’ùrdemo a saglì e ‘o primmo a
scénnere”. Subito riunione del comitato e decisione unanime ” a Sulupaca
se scenne!”. E così fu. A Solopaca scendemmo dal treno e ci andammo a
posizionare davanti al locomotore. Per dire tutta la verità, non furono molti i
telesini che aderirono all’iniziativa; trovammo invece un valido sostegno negli
amici studenti di Solopaca che parteciparono praticamente in massa. In tutto
eravamo una trentina di giovani. Quelli che ricordiamo con certezza sono:
oltre a me, Aldo Cucciniello, Nicola Sparano, il compianto Augusto Di Carlo,
Mimmo Tammaro, un certo Cesare di Dugenta e mio cugino Nino
Affinito; ma forse c’erano anche Pasquale Ricci, Giacinto Carlone, Antonio
Fucci, Amedeo Uccellini e, naturalmente, gli amici di Solopaca. Ma
sicuramente c’erano altri ragazzi, anche di Telese, e ci farebbe veramente
piacere se qualcuno, riconoscendosi tra gli interpreti di questo racconto,
scrivesse a Vivitelese dicendo: c’ero anch’io. Una volta davanti al treno,
assumemmo delle posizioni strategiche: Aldo si sdraiò sui binari, Nicola, “ca
purtava ‘e llente, nu’ cappiello ‘e pelle e n’impermeabbile marrò, passaje
tutto ‘o tiempo a s’appiccecà c’’o caputreno e cu’ ‘o capostazzione ‘e
Sulupaca” coadiuvato a dovere da Augusto che, per l’occasione, tirò fuori una
combattività imprevedibile in un ragazzo gentile e garbato come era lui. Per
quanto mi riguarda, “pè sta cchiù còmmeto, me purtaje appriésso ‘a catastella
‘e libbre, ‘a mettette ncopp’’o binario e me ce assettaje ncoppa… Me pareva nu’
posto e primma fila; e ntanto ‘ncapa a me penzavo: sta facenna fernisce nfiéto! Ad
un certo punto il capotreno ed il capostazione di Solopaca tentarono di
trascinare Aldo fuori dai binari; “cchiù lloro tiraveno e cchiù Aldo se faceva
pesante. All’intrasatte s’aizaje e accuminciaje ‘alluccà”, spalleggiato da
Nicola ed Augusto: – Noi da qui non ci muoviamo!; Siamo stanchi di essere
trattati come bestie!; Abbiamo rappresentato le nostre esigenze al capotreno
più volte, ma “manco p’’a capa!” E mentre alluccava, s’accurgette ch’’a
‘nnammurata ‘o guardava d’’o finestrino; e cchiù ‘a ‘nnammurata ‘o guardava, e
cchiù isso alluccava. I’ assettato ncopp’’o binario continuavo a penzà:
sta facenna fernisce nfiéto!” La baldanza si sa, è giovane. Essa a volte
esplode improvvisa ed imperiosa senza che ce se ne renda conto. Quella fredda
ed umida mattina d’inverno del 1963, una trentina di giovani baldanzosi della
valle telesina, contrariati dalle precarie condizioni in cui erano costretti a
viaggiare per raggiungere la scuola e umiliati dal
disinteresse degli organi competenti, inscenarono una protesta che rimbalzò su
tutti i giornali del Sannio e s’impose all’attenzione della collettività come
la prima protesta in Italia nel suo genere. Una anticipazione dei moti
politici-studenteschi del 68. Tuttavia dopo una mezz’ora, quando cominciò
ad albeggiare, la ragione prese il posto della baldanza e ci suggerì di
rimontare sul treno e di andare a scuola. Ma la reazione del capotreno non
lasciava presagire nulla di buono. Quando giungemmo a Benevento, ad
attenderci trovammo un centinaio di poliziotti schierati sui due lati del treno
e a forma di imbuto, in maniera che nessuno potesse sfuggire: “ Manco che ‘a
copp’’o treno avesse scennere ‘o bandito Giuliano!”. Di fronte ad un tale
spiegamento di forze, un signore anziano che stava seduto vicino a me esclamò
stupefatto: “Maronna! Tutta sta’ pulizzia nun ll’aggia vista manco quanno a
Beneviento venette Mussullino!” Alcuni poliziotti salirono sul treno e
cercavano, in particolare, un ragazzo alto con l’impermeabile marrone (Aldo) ed
un altro di statura media con occhiali, cappello di pelle e impermeabile
marrone (Nicola). Subito si diffuse la voce e Nicola fece in tempo a togliersi
gli indumenti incriminati ed a consegnarli ad una certa Rosaria di Dugenta,
mentre Aldo scambiò il suo impermeabile con l’impermeabile bianco di Gennaro
Prevete che stava affianco a lui. Nicola riuscì a passare il cordone dei
poliziotti. Purtroppo ad Aldo l’impermeabile di Gennaro “ lle jéva piccerillo,
ll’arrivava ncopp’’e ddenócchie, ‘e braccie steveno chhiù fòre ca dinto”. Me
pareva fràtemo Gino quanno se mettette ‘o cappotto mia ‘a notte ‘e Natale.
Quanno ‘e pulizziotti ‘o vedetteno accussì cumbinato, se passajeno sùbbeto ‘a
voce: oillanno, chillo è isso!”. ‘Acchiappajeno a isso e pure a Gennaro, ca nun
ce traseva niente”. Mi sono sempre chiesto come era stata formulata la
denunzia del capotreno, dal momento che la vicenda si era svolta al buio e con
la nebbia e non si potevano distinguere i visi. Eravamo arrabbiati, ma non
scemi. Considerando quello che cercava la polizia, mi viene da pensare che egli
sporse denunzia contro “ nu’ cappiello ‘e pelle, nu’ pare ‘e lente e nu’ pare
‘e mpermeabbile”. Insieme ad Aldo e Gennaro, furono trattenuti altri
giovani che non riusciamo a ricordare e tra di loro c’era più di qualcuno che
non c’entrava nulla. E benché messi sotto pressione, nessuno parlò. Giunsi
a scuola in ritardo e dovetti passare, secondo la prassi, per l’ufficio di
Presidenza per giustificarmi. Ad attendermi c’era il Preside Prof. Campesi ed
il mio professore di diritto, Avv. Ferrara, ai quali era già arrivata qualche
notizia. Mi chiesero di esporre i fatti nei minimi particolari e quando
ebbi finito mi resi conto, per la prima volta, della gravità di quello che
avevamo combinato poiché l’Avv. Ferrara mi disse, un po’ contrariato: – Affinì,
questo non è uno scherzo! Quei ragazzi rischiano 7 anni di carcere e
l’iscrizione sulla fedina penale. “Me se chiarono ‘e ccosce d’’a paura” e
risposi esterefatto: “e si ‘o treno ce’avessemo arrubbato, che faceveno, ce
cundannaveno a morte!? Il preside Campesi si ricordò del suo mandato di
docente ed intese svolgerlo nella maniera più nobile ed onorevole. Assunse una
espressione seria e rivolgendosi all’avv. Ferrara pronunciò, con tono solenne,
le seguenti, quasi testuali parole: - Professore, i genitori di questi
ragazzi sono lontani, non possono difenderli. Spetta a noi farne le veci. Fece qualche
telefonata dopodiché prese cappello e cappotto e si recò, accompagnato
dall’avv. Ferrara, presso il comando della Polizia ferroviaria ove erano
trattenuti i suoi studenti. Quando giunse alla stazione, i giovani che
erano stati trattenuti e che stavano lì, sotto pressione, gli si fecero intorno
per raccontare anche loro come si erano svolti i fatti e, in quel piccolo
trambusto che si creò, Aldo ne approfittò per defilarsi e per raggiungere,
insieme a Nicola che l’aspettava fuori, lo studio dell’Avv.Aldo Cucinelli. Per
farsi ricevere dall’Avvocato che si era appena alzato e stava ancora in una
sgargiante vestaglia rossa, dovettero ingaggiare una lotta senza quartiere con
la domestica che non intendeva farli entrare; ma alla fine riuscirono a parlare
con il legale e ad esporgli il quadro della situazione. Anche lui fece
qualche telefonata, sembra al Questore ed al Prefetto, evidenziando che la
manifestazione non aveva altri scopi se non quello di dimostrare il disagio nel
quale eravamo costretti a viaggiare. Ci fu un interessamento generale e
tutti fecero pressione sul maresciallo della polizia ferroviaria perché
archiviasse la pratica. C’era però una denunzia che non poteva essere
disattesa, a meno che, suggerì il maresciallo, non si dimostrasse che i ragazzi
incriminati non erano quelli che avevano impedito la partenza del treno. E
fu quello che dimostrammo. All’uscita della scuola, io ed Augusto Di Carlo, ci
recammo presso il comando della Polizia Ferroviaria, ove ci aspettava il
maresciallo, e firmammo una dichiarazione che scagionava i nostri amici
affermando che, nel momento in cui si svolsero i fatti, quelle persone non
potevano stare davanti al treno perché stavano in nostra compagnia. E,
dopotutto, affermammo una mezza verità. A distanza di tanti anni,
desideriamo ringraziare tutte quelle persone che si adoperarono per trarci
d’impaccio, ma soprattutto desideriamo ringraziare quel sant’uomo del
maresciallo della Polizia Ferroviaria che si comportò con noi, e non solo in
quella occasione, più come un papà che come un tutore dell’ordine. Che peccato non ricordarne il
nome!
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